VAN DONGEN A MONTMARTRE

Parigi, 27 agosto. Vedere Van Dongen al Musée de Montmartre è un po’ come bere una birra all’Hofbrähaus di München. Sì perché un conto è bere una birra nel bar sotto casa, un conto è berla nella più celebrata birreria tedesca. La stessa cosa vale per Van Dongen; vederlo qui a Montmartre, nei luoghi stessi dove l’avanguardia è nata e i suoi artisti sono vissuti e hanno operato, dà un surplus di emozione, più  di quanto non possa fare una mostra a Palazzo Reale. L’arte è cosa per feticisti, e vedere “Deux Yeux” che ti guardano e sapere che a tre metri da te c’è l’atelier di Suzanne Valadon e guardando dalla finestra vedi “Lapin Agile” e il cielo perennemente “bouleversé” di Parigi, è un’emozione che ti porti dentro nel cuore e una sensazione di piacere che ti porti fin giù nelle viscere. Già perché “les Fauves” e l’odore della moutarde o de le boeuf bourguignon vanno serviti insieme sullo stesso vassoio. Non si può comprenderla davvero questa benedetta (o maledetta) “arte” se non ai sente dentro le budella. Vale anche per Caravaggio o per Pontormo, se non sentite dentro di voi l’odore di muffe chiesastiche o il brivido che dà il fumo dell’incenso, il senso del “sacro” non lo sentirete mai, tantomeno con in mano la Lonely Planet. Van Dongen va visto da quassù, da questa piccola collina che illuminò il mondo con la sua capacità di attirare artisti tra il XIX e il XX secolo. Vitalità sensuale e passionale quella di Van Dongen, sfrontatezza di sentimenti, capacità di mescolare colori caldi e freddi, una smodata passione per il circo, per lo sberleffo, per la vita vissuta da “belva”. Così era lui e così erano i “fauves”, come Matisse o come Derain o Vlaminck. E tutto ciò che è stato, è stato qui, tra la vigna e la “Maison Rose”, tra il Bateau Lavoire e il Moulin de la Galette, dove si serviva ancora il vino nuovo, a due passi da “Le Consulat”, dove qualcuno sta già mangiando una choucroute...



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